Trumponomics II Revolution

28 February 2025 _ News

Trumponomics II Revolution

Il Dazio è una tassa sull’importazione di beni o Servizi. Gravando su chi importa le merci, la sua più immediata conseguenza è l’aumento dei prezzi dei beni importati e pagati dai consumatori. Difficile, infatti, che l’importatore assorba il maggior costo così come altrettanto improbabile è che se ne faccia carico l’esportatore. Si genera, quindi, un aumento di spesa nei consumi interni o una riduzione del volume dei consumi e a volte entrambe.

In generale la comunità accademica concorda nel ritenerla una misura poco efficace se non dannosa sia per chi la applica che per chi la riceve.

Rarissimi sono i casi in cui può avere effetti benefici come nel caso, ad esempio, di protezione di settori economici neonati o in fase di sviluppo, decisamente non il caso di quelli discussi da Trump.

Quasi sempre a dazi si risponde con dazi in una escalation che in linea di principio non ha né vincitori né vinti a patto che non siano limitati ad un paese soltanto. In questo caso, infatti, sono facilmente aggirabili spostando la produzione verso paesi terzi in modo da eludere l’ostacolo del paese di provenienza (come accadde nella guerra doganale delle lavatrici tra Usa e Cina tra il 2016 e il 2018 in cui la Cina spostò la produzione in Vietnam, paese non coinvolto dalle sanzioni).

 

 

Per ovviare al problema Trump si è mosso contro una pletora di paesi: Cina (320 miliardi di disavanzo), Canada (74 mld), Messico (176 mld) seguendo sostanzialmente la classifica dei passivi di bilancia commerciale americana. Per quanto riguarda la zona euro (150 mld nel complesso) i dazi verrebbero applicati paese per paese e in questo caso l’attenzione di Trump è concentrata sulla Germania (88 mld), Italia (46mld) e Francia (17 mld).

A riprova di ciò che guida l’individuazione dei paesi obiettivo vi sono le delicate parole di apprezzamento di Trump verso l’Australia che ha, infatti, un saldo positivo tra esportazioni e importazioni a favore degli Usa per 17 miliardi di dollari.

Dazi per tutti, quindi, ma per motivi diversi.

Dazi di rabbia per i paesi accusati di “Free Riding” (definibile in maniera prosaica come comportamento scroccone o parassita).

Dazi da “guerra”, quelli cinesi che con il loro avanzo commerciale finanziano la loro sfida all’egemonia globale americana.

Resta il fatto, e non vi è alcun dubbio, che i dazi siano dannosi per tutti e nel caso italiano lo sarebbero particolarmente per settori tradizionalmente orientati alle esportazioni oltreoceano come quello alimentare e indirettamente per quello meccanico, farmaceutico e della moda i cui prodotti semilavorati arrivano negli Stati Uniti come prodotti finiti francesi o tedeschi.

Al momento appaiono certi a partire dal 4 marzo 2025 le imposizioni del 25% per Canada e Messico e del 10% per i prodotti cinesi mentre sono in pieno svolgimento le trattative che riguardano l’Europa, naturalmente in ordine sparso e come da euro-tradizione “ognun per sé”.

Se l’analisi si limitasse alla sola questione dazi, però, ne emergerebbe un quadro poco razionale e quasi senza senso. Una ripicca puerile dettata da un senso di rivalsa da parte, poi, della più grande economia globale che vittima non lo è quasi mai.

Ma se proviamo ad allargare gli orizzonti del ragionamento potrebbero emergere percorsi parecchio sensati e orientati al conseguimento di fini decisamente più ortodossi.

L’America spende troppo, gli altri, Europa in testa dove da almeno un decennio si predica l’austerity, spendono poco.

Il debito pubblico americano a gennaio 2025 ha raggiunto i 36.22 trilioni di dollari (a gennaio 2023 erano 33.1) con un rapporto debito/Pil del 134.1%. Con le proiezioni che stimano nel 2028 42 trilioni di dollari di debito il dibattito interno agli Stati Uniti, e non solo, ha sollevato dubbi sulla sostenibilità fiscale e sulle possibili implicazioni di tenuta del modello di crescita americano.

L’attuale livello dei tassi al 4.50% non aiuta rendendo oltremodo oneroso il costo del debito. L’inflazione a gennaio si è attestata al 3.0%, in lieve risalita dal 2.9% di dicembre 2024. Le opzioni della Fed si sono ridotte e nuovi tagli a breve non sono probabili.

Da qui l’attivismo dell’amministrazione americana, attraverso il DOGE (Department of Government Efficiency), in pratica un ministero senza portafoglio, nei tagli drastici del budget federale con, anche, il non tanto segreto auspicio di riuscire a tagliare un pò di tasse sul reddito come promesso in campagna elettorale.  Spendere meno, quindi, e innescare

 

un nuovo circolo virtuoso che permetta di interrompere la spirale negativa dell’indebitamento con l’obiettivo della riduzione del tasso di inflazione e poi dei tassi di interesse, pazienza se subendo un rallentamento nei consumi interni con progressivo indebolimento del dollaro.

La nuova ricetta economica di Trump, quindi, (da qui Trumponomics), sebbene abbozzata durante il primo mandato, rappresenta una vera novità per le abitudini di spesa americane come se mostrassero segnali di stanchezza nel loro ruolo di compratori di ultima istanza del sistema economico globale, ma soprattutto lo è per i paesi Europei chiamati ad una maggiore responsabilità (a partire dalla spesa per la difesa), e ad investimenti complessivi massicci che già il rapporto “Draghi” stimava in circa 700 miliardi di euro.

I primi segnali da parte Europea fanno pensare che effettivamente i vincoli di bilancio possano passare, anche se di poco in secondo piano.

Anche la retorica e il tono delle dichiarazioni di Friedrich Merz, leader della CDU, fresco vincitore delle elezioni tedesche, vanno proprio in questa direzione.

Assisteremo quindi a un periodo di grandi aggiustamenti dei meccanismi economici globali, fatti di ingranaggi che si metteranno in moto, lentamente e produrranno i loro effetti nel tempo e in misura tutta da verificare.

Nel frattempo, il mercato si adatta rimodulando le proprie aspettative di conseguenza.

Poco mossi gli indici Americani, S&P500 a+ 1.20% da inizio anno, in attesa di capire il punto di approdo più probabile della “nouvelle vogue” economica mentre sono piuttosto pimpanti quelli europei +10% circa l’Eurostoxx 600, una volta tanto galvanizzati dalla prospettiva di una nuova ripresa sull’onda degli ingenti investimenti richiesti dal nuovo panorama geopolitico ed economico.

Al riguardo i nostri portafogli sono preparati per questo scenario, avendo una esposizione alle azioni europee pari al 38% (superiore alla tradizionale esposizione dei benchmark) e una esposizione al mercato americano del 46%, ragionato, però, sulla base delle valutazioni.

Restiamo orientati ai mercati europei anche in termini obbligazionari, con alti rendimenti e tendenze ribassiste sui tassi, mentre siamo prudenti sulle obbligazioni americane, principalmente per timori sul cambio e un suo possibile indebolimento. Valutiamo con interesse le obbligazioni paesi emergenti, come possibile prossima aggiunta nei portafogli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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